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Old 07-15-2007, 12:13 PM
dave.heat dave.heat is offline
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La Rai è low-tech


La televisione generalista perde colpi, i ragazzi preferiscono YouTube ai tg e Mediaset sta per lanciare i suoi programmi on demand. Cosa deve fare la Rai per competere nel XXI secolo?

La sede Rai di via Teulada«Il mercato televisivo nazionale non è più duopolistico: accanto a Rai e Mediaset c'è La7 e, su piattaforma satellitare, c'è Sky che con i suoi 4 milioni di abbonati rappresenta una buona fetta di mercato. Non si intende concentrare la nostra attenzione né sul ruolo con il quale i tradizionali editori televisivi si rapportano a Sky, l'unica piattaforma satellitare esistente (nei confronti della quale essi si configurano come classici fornitori di contenuti), né sul processo di digitalizzazione delle reti (si tratta prevalentemente della modernizzazione, da completarsi in modo definitivo entro il 2012, della superata distribuzione analogica), anche se rispetto a questa riconversione Rai e Mediaset si sono mosse in modo molto diverso (nuove offerte free per la Rai, offerte pay per Mediaset).

Da parte nostra si vuole invece riflettere attorno a quell'assieme di piattaforme che hanno radicalmente cambiato il modo di fruizione della televisione stessa, considerando il cliente al centro della filiera produttiva. Il ruolo da protagonista è realizzabile, per quel tanto di modalità interattiva che è possibile praticare, anche nei confronti di una rete digitale terrestre, ma in sostanza esso si configura, invece, in modo specifico e peculiare, nei confronti dell'IPTV, del web, del mobile e dintorni; piattaforme che, distribuendo i contenuti video in banda larga su protocollo IP, attivano un vero canale di ritorno e consentono quindi l'interazione piena da parte del cliente finale.

È in tutti questi campi che i vecchi broadcaster si devono misurare con i nuovi protagonisti tecnologici del mercato e cioè gli attori delle telecomunicazioni, dell'informatica e dei telefonici in particolare. Mentre (come si è già evidenziato) nella prospettiva delle reti digitali terrestri i due attori (Rai e Mediaset) hanno sperimentato strade opposte (reti free, senza successo, per la Rai; offerte pay, con risultati inferiori alle aspettative per Mediaset), per l'IPTV, ad esempio, Mediaset, non si è mossa, mentre la Rai, attraverso Rai Click (una società partecipata al 60 % da Rai e al 40 % da Fastweb) ha realizzato un servizio che mette assieme il meglio della tv e del web, proprio perché Fastweb da sempre è in grado di offrire un triple play: telefonia, internet, televisione. Un servizio attuato anche grazie alla disponibilità che nasce tra i tecnici, i produttori, gli operatori sia di Fastweb che di Rai (e tra questi va ricordata l'attività svolta in outsourcing da Rai Net nella predisposizione dell'offerta). È facile, quando i progetti sono di frontiera e molto coinvolgenti, trovare molto entusiasmo nei professionisti.

Ci sono anche altre iniziative interessanti della Rai nei cosiddetti new media, ma trattasi di operazioni singole, il cui successo (quando c'è stato, e c'è stato) è da ricondursi a capacità professionali e alla disponibilità a scommettere di alcuni managers e dei loro collaboratori. Non si è finora tenuto conto dei suggerimenti innovativi che queste esperienze possono portare nel concepire la filiera produttiva, la confezione dei prodotti, la predisposizione dell'offerta, le tecniche di marketing e di valutazione del comportamento della utenza. Di contro, come avviene nelle fasi di sperimentazione, i numerosi tentativi di aggregazione delle esperienze non hanno avuto esito positivo. Ogni attore di questa storia ha investito autonomamente e non collettivamente nella conoscenza del campo.

Molte cose buone sono state fatte, ma stanno emergendo i limiti della dispersione che ha caratterizzato il comportamento aziendale nei new media. Nel caso dell'intera offerta destinata alla banda larga, essa appare decisamente frammentata. Produttori e aggregatori di contenuti sono in scarso collegamento tra loro. Ad esempio, con la creazione di Rai Media (il video portale di Rai.it) viene superata la prima suddivisione di competenze tra il portale Rai e Rai Click. Secondo tale suddivisione Rai Click avrebbe dovuto concentrare la sua offerta sul segmento broadband e il portale Rai sul segmento narrowband: una delimitazione "tecnica" fragile che, sempre più supertata nel tempo, ha consentito di fatto a realizzare operazioni sempre più simili e sovrapponibili.

Perché non si razionalizza, non si unifica?
Televisione RAI«Le intenzioni del management interno sono buone (basta vedere i compiti attribuiti alla struttura New Media, alla quale sono state assegnate nuove funzioni dal Cda 15 giorni fa), ma permangono abitudini storicamente considerate non facilmente superabili. Non corrisponde al vero che la Rai abbia snobbato o sottovalutato il tema delle tecnologie e, in generale, gli investimenti tecnologici. È certo, invece, che la Rai (nel tempo) ha realizzato delle cose egregie di valore mondiale (si è costruita un suo televisore, ha inventato il meter, ha contribuito in modo determinante alla invenzione-sperimentazione della compressione digitale), ma si è trattato di operazioni in sé, meno destinate di quanto non si potesse fare al business, al cambiamento dei modelli operativi.

Anche quando ha messo in essere iniziative strutturali (Rai Click, Rai Net, Digit, New Media) lo ha fatto in una logica "aggiuntiva", di accumulo, quasi autarchico e non destinato a contaminare e a mettere in discussione il vecchio apparato nel suo complesso. La cultura tecnologica non è mai stata un elemento guida nel cambiamento della Rai. Nella storia della Rai hanno sempre convissuto una cultura del prodotto accanto ad una cultura dell'amministrazione e ad una cultura delle tecnologie. Un discorso che può essere tradotto in questo modo: il rapporto tra programmi (programmisti e giornalisti), amministrazione (amministrativi) e mezzi tecnologici (tecnici e ingegneri) è sempre stato oggetto di una forte dialettica nel (e tra) top management interno. La cultura tecnologica non ha mai avuto un peso condizionante (con una breve e parziale eccezione nella gestione dei "professori"), mentre ha prevalso la cultura dei contenuti fino a dieci anni fa e successivamente (anche con brevissime e sporadiche eccezioni) la cultura amministrativa, diventata poi quella dell'organizzazione e del business, ha preso il sopravvento».

Le difficoltà sono culturali o manca una strategia?
«Delle esperienze riuscite si è sempre sottovalutato il ruolo strategico e la opportunità che esse presentavano per il cambiamento dell'apparato nel suo complesso, nonché per le opportunità di business. A proposito di convenienze si deve avere ben presente che gli operatori telefonici vogliono fare la IPTV anche per compensare la perdita dei ricavi della telefonia e per fidelizzare i clienti. Specularmente, anche i grandi broadcaster tradizionali devono essere presenti nell'IPTV, nel web tv, nel mobile e dintorni, per non perdere l'utenza generalista (sia di oggi che quella futura). I servizi e i contenuti che la banda larga saprà veicolare non sono solo un business in sé, ma rappresentano un valore aggiunto per l'utente della tv generalista che, a seconda delle sue esigenze, si accosta in modo diverso all'offerta televisiva, desideroso di trovare il brand che preferisce su diverse piattaforme. Lo spettatore televisivo del futuro non è vero che sarà per forza attivo, continuerà ad essere prevalentemente passivo, ma vorrà decidere lui quando essere una cosa o l'altra. Questo sarà possibile se il suo editore preferito gli offrirà contemporaneamente prodotti e servizi, seppure collocati su diverse piattaforme.

Per ora tuttavia non ci pare che l'IPTV stia decollando, come si sperava...
«Si è detto che l'IPTV è un servizio che mette assieme il meglio della tv e del web (si deve ricordare che la filiera produttiva della IPTV e della web tv è, in grandissima parte, la stessa). Ci si deve anche chiedere perché, malgrado che, con la IPTV, ad ognuno si possa offrire quello che vuole, quando lo vuole e come lo vuole, e a tutti si possono assicurare contemporaneamente canali lineari e offerte on demand, essa (IPTV) continua ed essere in una fase di strat up (si parla di 170000 di Fastweb e 30000 per Telecom).

Ci sono molte spiegazioni: a) non è facile farsi largo tra cavo e satellitare tv: Sky ha 4 milioni di abbonati, Mediaset sta sperimentando la pay digitale, su internet si sta affermando un modello più libero (ad esempio You Tube, senza palinsesti precostituiti) e free, anche se esso (definito come espressione del "estremismo digitale soggettivo"), alla lunga, è talmente diverso dall'IPTV che non sarà alternativo a quest'ultima. In ogni modo, il decollo vero dell'IPTV, come tv del futuro (visto che può soddisfare i tradizionalisti e gli innovatori), è atteso nell'arco dei prossimi 5 anni, ma a condizione che si superino certi condizionamenti strutturali come, ad esempio, le regole che governano l'attuale mercato pubblicitario che è controllato al 69 % da Mediaset e al 30 % circa dalla Rai».

Quali sono le sue proposte perché la Rai esca da questa situazione?
«Da una esperienza significativa e dalle contraddizioni che sono alla base dei comportamenti aziendali in questo ambito, si può uscire solo con una visione complessiva di quello che si deve fare per il campo considerato. Non basta definirne la particolarità: il cliente è all'origine della filiera produttiva e non è alla fine della stessa, come avviene nell'esperienza unidirezionale tipica delle tv generaliste in questi anni. Non è nemmeno sufficiente, come è negli impegni dell'attuale management, unificare, in un nuovo soggetto, una parte dell'attuale struttura New Media, Rai Click e Rai Net.

La visione d'insieme comporta alcune operazioni di sistema obbligate: la Rai manca di un forte presidio dei principali processi produttivi legati alla digitalizzazione dei contenuti. La frammentazione delle responsabilità tecnologiche sparsa tra diversi attori va superata. Se si vuole rispondere adeguatamente alla evoluzione della domanda espressa dall'utente televisivo, bisogna ipotizzare, nella predisposizione di una offerta (intesa come mix di prodotti e di servizi), un diverso equilibrio tra il ruolo delle reti e quello delle aree tematiche (fiction, cinema, sport, educational, intrattenimento), non ignorando che questa seconda opzione è decisamente più funzionale e rispondente alla esigenza di una offerta cross mediale e multipiattaforma.

La digitalizzazione dei prodotti di archivio (che sono anche fonte di riferimento per inventare nuovi format all'interno dell'azienda) e di flusso rappresenta una priorità, dal momento che essi sono ai primi posti nelle richieste espresse dalle nuove piattaforme. Mentre va resa sempre più autonoma e decentrata ogni decisione che si riferisce alla produzione, va accentrata l'acquisizione dei diritti (valida per tutte le piattaforme), e la commercializzazione degli stessi, indipendente dai mercati e dalle piattaforme (sono stati calcolati in 180 i diversi tipi di diritti d'autore).

La concessionaria di pubblicità non solo deve tenere conto della collocazione dei prodotti sulle diverse piattaforme, ma considerare nella giusta prospettiva la possibilità che essa (pubblicità) possa essere verificata, nei suoi effetti, anche a livello personalizzato per alcune piattaforme, rispetto alle quali vanno anche provati nuovi modelli di business.

Stabilire un modello di relazione specifico per ognuna delle piattaforme implica scegliere la modalità con la quale rapportarsi con i propri clienti. Il problema non si pone né per la piattaforma analogica e proprietaria, dove il controllo del cliente, prendendo in considerazione la Rai, si manifesta attraverso un ?patto? formale, come il canone, né per quella satellitare, dove i content providers, come la Rai, sono tagliati fuori dal rapporto con i clienti. Nei confronti delle piattaforme nelle quali il fruitore (della cui "centralità" si è già detto) agisce in modo dinamico, discontinuo e soggettivo, la Rai deve decidere se il rapporto lo lascerà gestire al trasportatore (Telecom, Fastweb, Tiscali) o se rivendica un ruolo condizionante e attivo, interfacciando direttamente l'utente, in modo da capire, influenzare e/o anticipare i suoi bisogni. Nel primo caso la Rai si ridurrebbe a essere uno dei tanti fornitori di contenuti, nel secondo opererebbe da editore, con tutte le conseguenze sul come si deve tecnologicamente attrezzare per svolgere tale compito e sugli accordi da stabilire con i proprietari delle piattaforme di trasporto.

La Rai deve considerare come strategicamente importante quella quota di italiani (30 % circa) che la televisione non la vede nel vecchio televisore: trattasi di un'utenza con particolari caratteristiche socio-economiche, culturali, di età, che sta guidando la migrazione da un media all'altro. Sono consumatori leaders che cambiano il mercato e dei quali il servizio pubblico non si può privare.

Tornando su Rai Click, i dati più significativi sono i seguenti: Rai Click conta circa 57 mila clienti sulla piattaforma Fastweb tv. Per quanto riguarda il suo rapporto contrattuale con Telecom Italia-Alice home tv, il modello di business è diverso, al momento di tipo commerciale, e ancora non si conoscono i dati di consumo. Rai Click web, all'interno del portale Rai, registra mediamente circa 7 milioni di pagine viste al mese; i visitatori unici mensili sono pari a circa 400 mila.

Rai Click ha sperimentato per prima la distribuzione su protocollo IP di contenuti con modalità innovative e interattive (si veda l'on demand), affermando nuovi modelli di consumo. Lo ha potuto fare grazie ad un'alleanza con un partner tecnologico che ha consentito la distribuzione dei prodotti sia con derivazione televisiva che con derivazione web e che gli ha anche permesso di conservare un rapporto con il cliente. Forse quest'ultimo è uno degli asset più importanti di questa esperienza. Chi ha lavorato a Rai Click non ha solo sperimentato nuovi linguaggi, originali forme di marketing, diverse pratiche tecnologiche, strumenti di conoscenza del cliente profondamente innovativi, ma ha anche vissuto dal di dentro una cultura di impresa: esperienza, quest'ultima, non praticata dalla maggior parte del management Rai.

La Rai è sempre ricorsa all'esterno per una parte della sua produzione anche se in modo e in percentuale diversi nel tempo. Il totale dei costi di produzione da terzi, per tutte le Reti, va dal 20,7 % al 27 % dal 2002 al 2006; per Rai Uno, nello stesso periodo, va dal 24,3 % al 31,1 %, per Rai Due dall'11,0 % al 25,9 % e per Rai Tre dal 27,9 % al 21,1 %. Non è scandaloso rivolgersi all'esterno per motivi di economicità complessiva, di opportunità culturale, e quando gli autori, gli intellettuali, i professionisti, le società di produzione preferiscono lavorare per il mercato e non esclusivamente per uno degli attori della scena. Il mercato ?esterno?: a) è più ricco di autori; b) è più caratterizzato dalla cultura della convergenza e quindi più predisposto a sperimentare e inventare nuovi linguaggi rispetto ad una azienda che viene da una cultura dei generi e non della contaminazione degli stessi (va ricordato a proposito di innovazione del linguaggio che le più interessanti novità ?interne? vengono dall'offerta giornalistica, peraltro prodotta dalle reti più che dalle testate); c) è più allineato alle logiche dei mercati globali.

Quello che ?preoccupa? non è il ricorso al mercato esterno per l'approvvigionamento di prodotti, ma l'aumento di una particolare forma di acquisto, quella mirata ad entrare in possesso di prodotti da mettere in onda in modo invasivo nelle fasce strategiche (prevalentemente prime time e pre-serale) e cioè nel momento di maggiore caratterizzazione delle reti per il grande pubblico. Si tratta di prodotti da rete commerciale. Attraverso questa strada è stato possibile l'affermazione di una cultura impropria per la Rai. Certi format sono stati il mezzo non tanto per privatizzare il servizio pubblico, quanto per renderlo sempre più commerciale.

L'alternativa tra il make or buy non ha soluzioni definite una volta per tutte. Ci sono due dati su cui riflettere: nell'intrattenimento (il genere che più influenza in termini valoriali il pubblico) il rapporto tra programmi autoprodotti e programmi comperati è alla pari (50%). I titoli di varietà che, secondo Barbara Scaramucci, responsabile delle Teche Rai, possono essere oggetto di rielaborazione per nuovi format, perché di proprietà della Rai, sono 500.

Poi c'è l'affaire Endemol, appena acquistata da Fininvest. E la sua incidenza sulla questione nuove piattaforme...
«Con la parola "format" si intendono troppe cose: l'acquisto di formati veri e propri non è il dato più rilevante. In realtà dietro l'acquisto di format si nascondono forme di appalto, coperture di compensi elevati, commesse di produzione.

Va quindi fatto un ragionamento più serio sui format, partendo dalla definizione di che cosa si tratta veramente, senza confonderli con particolari modalità di acquisto di diritti d'autore e di brevetti. Mediaset si comporta da impresa quando partecipa all'acquisto di Endemol. Mi pare, invece, inaccettabile che sia Mediaset a decidere discrezionalmente quando Endemol possa agire in modo autonomo e quando come parte integrante del gruppo. Per la Rai non ci sono alternative: deve mettere in fila contratti già firmati, valutare i problemi di convenienza, riflettere sulle questioni di merito relativamente ai prodotti e (senza fare di ogni erba un fascio) decidere con coerenza, avendo tutti i titoli per condurre la partita e per imporre (sulla base degli interessi aziendali) la combinazione migliore tra produzioni esterne e produzioni interne.

Con un approccio serio, realistico e programmatico, la Rai potrà non diventare una provincia di Mediaset, tenendo conto che è vero solo in parte che Rai e Mediaset denunciano crisi parallele rispetto ai prodotti. L'affare Endemol va analizzato da altri punti di vista rispetto a quelli fin qui descritti. È sicuro che il problema della innovazione di prodotto per la Rai è tra quelli strategici e di sopravvivenza. Esso non può essere risolto scegliendo l'autarchia, opponendosi alle logiche del mercato, senza fare significativi investimenti nella ricerca, con tutto quello che essa comporta. Deve essere il mezzo attraverso il quale la Rai continua a creare valore, controllando i diritti.

Ed ancora: l'occupazione (anche se condivisa dalla Rai) di alcuni spazi strategici di palinsesto del servizio pubblico, operata in particolare da Endemol-Mediaset, non può essere ignorata per lo meno da coloro che, credono che ci sia un'etica di impresa da rispettare, che l'operazione tende a rafforzare le posizioni dominanti, rappresentando una distorsione della concorrenza, che i conflitti di interessi non siano un optional, che le autorità preposte a vigilare devono agire come tali. E questi, indipendentemente dall'entità dei costi sostenuti dalla Rai: e cioè anche se si tratta di 47 milioni all'anno a fronte di 1,6 miliardi di costi esterni della programmazione sopportati dal servizio pubblico.

Alessandro Gilioli
per "L'Espresso"
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Old 07-15-2007, 12:14 PM
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non è un articolo...è un libro! quando avrò tempo lo leggerò
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Grazie a tutti. Jwllives
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Old 07-15-2007, 12:16 PM
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sei stato piu prolisso di yatta e ce ne vuole


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  #4  
Old 07-15-2007, 02:05 PM
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cribbio che pergamena......


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  #5  
Old 07-15-2007, 02:54 PM
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veramente c'erano altri 3 paragrafi ma avevo raggiunto il limite di caratteri
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  #6  
Old 07-15-2007, 02:57 PM
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Originally Posted by dave.heat
veramente c'erano altri 3 paragrafi ma avevo raggiunto il limite di caratteri



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  #7  
Old 07-15-2007, 03:32 PM
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quasi quasi la stampo e la leggo in 3-4 anni....hihihiih


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  #8  
Old 07-15-2007, 03:41 PM
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Originally Posted by jwllives
non è un articolo...è un libro! quando avrò tempo lo leggerò

qualcuno sa se hanno fatto il film ispirato dal tomo?


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  #9  
Old 07-15-2007, 03:43 PM
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Originally Posted by stefano.vitali84
qualcuno sa se hanno fatto il film ispirato dal tomo?

si si faranno una saga....dovrebbe essere una trilogia!
uscirà fra 5 anni,il tempo che il regista si legge per bene tutto il tomo...e poi ci lavora su


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