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la dittatura delle minoranze


La dittatura delle minoranze

LUIGI LA SPINA editoriale da la stampa di oggi

Gli ultimi casi della politica italiana inducono alla tentazione di formulare una domanda, assolutamente scorretta, un po’ sgradevole e di sicuro poco chic: nel nostro Paese, non sta diventando insopportabile la dittatura delle minoranze?

La vicenda del patto sul Welfare e le polemiche, dopo la manifestazione di An e il voto delle primarie per il Pd, sulla scoperta di un’Italia diversa da quella rappresentata dal grillismo trionfante suscitano davvero quelle che Altan, in una delle sue fulminanti battute, definiva «idee che non condivido». Troppo forte, infatti, è il ricordo degli insegnamenti di Tocqueville, di Kelsen, di Bobbio e di tutti gli altri classici del pensiero liberale e democratico sul valore delle minoranze nello Stato moderno. Troppo vicine le tragedie del Novecento per dimenticare l’oppressione delle dittature naziste e comuniste contro minoranze etniche, religiose, sessuali, linguistiche; contro il dissenso e, comunque, contro quell’anticonformismo che resta il miglior antidoto all’imperialismo morale e ideologico della maggioranza.
Pur consapevoli, perciò, di affondare in un terreno minato da giuste e profonde convinzioni, come da ipocriti luoghi comuni, può essere utile ripercorrere il film degli ultimi giorni per cercare di sintetizzarne il senso e di collegarne i fatti. Il governo trova l’intesa sulle modifiche al nostro Welfare con le parti sociali.

I sindacati promuovono una grande consultazione con i lavoratori che, con una maggioranza di oltre l’80 per cento, approvano la soluzione proposta. Il giorno dopo, su richiesta di una minoranza dello schieramento di partiti che sostengono Prodi, minoranza che supera di poco il 10 per cento dell’elettorato, il Consiglio dei ministri modifica l’accordo. A parte l’ulteriore «marcia indietro», di fronte alle proteste di sindacati e Confindustria, non definibile altrimenti che con l’aggettivo «grottesca», il potere dimostrato, ancora una volta, dalla dittatura delle «minoranze» è impressionante.

Il secondo avvenimento della recente cronaca politica è costituito dal successo sia della manifestazione di piazza promossa da An sia delle primarie del Pd. Esiti che hanno fatto improvvisamente scoprire come forse la rappresentazione di un’Italia radicalmente avversa ai suoi partiti e tutta prona agli appelli sbrigativi di Grillo fosse perlomeno imprudente, se non sbagliata. Certo infilarsi nella trappola dei numeri e delle percentuali è pericoloso, ma il dubbio sulla deformazione, anche giornalistica, che tende a trasformare minoranze aggressive e folcloristiche in maggioranze virtuali dell’Italia d’oggi è del tutto legittimo.

Fatta la doverosa premessa di non confondere la dittatura delle minoranze interne alla maggioranza con i sacri diritti dell’opposizione parlamentare e politica, la spiegazione che, in genere, si offre a questa anomalia italiana è fondata sulle perverse conseguenze di una sciagurata legge elettorale. Siamo l’unico Paese al mondo, infatti, che è riuscito a concepire il cosiddetto maggioritario, che, come la parola indurrebbe a credere, punta a privilegiare le forze più numerose, in modo da esaltare il potere dei partiti più piccoli. Questa osservazione, di sicuro la più immediata, è certamente vera, ma non è esaustiva. La forza delle minoranze italiane, il loro potere di veto, l’immobilismo a cui costringono la nostra società derivano anche dalla persistenza di una cultura sostanzialmente trasformistica, antidemocratica ed elitaria che pervade non solo la classe politica, ma anche tutta la classe dirigente italiana, compresa quella universitaria e giornalistica.

Il rispetto della regola per cui, quando si resta in minoranza, si intraprende una tenace battaglia interna per convincere la maggioranza dell’errore commesso e così ribaltare il verdetto delle opinioni, provvisoriamente sfavorevole, non vale solo in Parlamento. In Italia non nascono solamente i partiti personali o di pochi intimi, ma la prassi di non accettare la sconfitta interna e di correre a fondare subito un’altra associazione dissidente, è del tutto comune, dai circoli delle bocce ai Rotary. I motivi sono essenzialmente due: gli italiani non credono fino in fondo alla possibilità democratica di ribaltare un risultato, di convincere all’alternanza del potere, alla reversibilità delle cariche di comando; inoltre, la seduzione del protagonismo mediatico, la facilità con cui lo sconfitto si trasforma subito nella vittima di un imbroglio o di una clamorosa ingiustizia, inducono a non ammettere mai l’esito negativo di un confronto con gli altri.

Ecco perché anche la nostra cultura giornalistica non può esimersi da qualche riflessione: è vero che solo l’anomalia converte un semplice fatto in una notizia, ma il privilegiare sempre la rappresentanza dell’opinione minoritaria, il comportamento dissenziente, il parere obbligatoriamente eterodosso non può indurci a raccontare un Paese diverso dalla realtà? Forse più interessante, sicuramente più divertente, ma meno vero.


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